Cattivo maestro o costruttore di ponti ?

L’intellettuale musulmano ginevrino Tariq Ramadan risponde alle polemiche

Intervista al “Corriere del Ticino”, edizione del 18 settembre 2007
 
Tariq Ramadan è un « cattivo maestro » : da una parte tesse gli elogi della democrazia e dei diritti civili e dall’altra appoggia posizioni musulmane incompatibili coi valori occidentali. Niente affatto, Tariq Ramadan è un pioniere del dibattito e dell’incontro sincero e pacifico tra mondo islamico e civiltà europea. Dal due settembre scorso il « Corriere della Sera » ha aperto in Italia la discussione attorno all’accademico musulmano svizzero residente a Ginevra e ricercatore ad Oxford, nonché autore di numerosi saggi incentrati soprattutto sulla presenza dell’Islam nel vecchio continente (tra cui : « Maometto. Dall’Islam di ieri all’Islam di oggi », Einaudi, 2007 ; « L’Islam in Occidente. La costruzione di una nuova identità musulmana », Rizzoli, 2006 : « Il riformismo islamico. Un secolo di rinnovamento musulmano », Città Aperta, 2004 ; « Essere musulmano europeo », Città Aperta, 2002).
Attaccato, tra gli altri, da Paul Berman che gli rimprovera un atteggiamento ambiguo nei confronti della democrazia e lo paragona al filosofo Heidegger che fu simpatizzante del nazismo, Ramadan è stato difeso, tra gli altri, da Ian Buruma secondo il quale egli « è quanto di meglio l’Islam riesca oggi ad esprimere dal punto di vista intellettuale. Qualcuno con cui vale la pena di confrontarsi ».
Il saggista ginevrino è stato anche protagonista di un ruvido faccia a faccia fuori programma con il giornalista anglo-americano Christopher Eric Hitchens al « Festivaletteratura » di Mantova. A dimostrazione del fatto che la sua figura continua a dividere i pareri degli intellettuali europei.
Nato a Ginevra nel 1962 e nipote del fondatore dei Fratelli Musulmani in Egitto, Ramadan fluttua tra plausi e censure. Nel 2004 gli Stati Uniti gli hanno revocato il visto e lo considerano « persona non grata », ma in Inghilterra l’ex premier Tony Blair l’ha voluto come consulente per i rapporti con l’Islam dopo gli attentati di Londra.
Questi i principali pareri e atteggiamenti su Tariq Ramadan. Ma il diretto interessato come reagisce ?
 

 

Di Carlo Silini

 

 

 
Professor Ramadan, in Italia è ancora in corso un dibattito a tinte forti su di lei. Alcuni la ritengono un « cattivo maestro », altri un interlocutore privilegiato per l’Occidente. A cosa attribuisce l’esplosione della polemica ?

 

« Quando, come nel mio caso, si costruiscono ponti – e io mi situo in tutti e due gli universi di riferimento : appartengo tanto a quello occidentale, quanto a quello islamico – si ricevono moltissime critiche sia da parte di certi gruppi musulmani secondo i quali io sarei troppo occidentalizzato, sia da parte dell’Occidente dove alcuni ritengono che io non vada fino in fondo nelle richieste di riforma e di modernizzazione dell’Islam ». 

 

 

La polemica attorno alla sua persona farebbe insomma parte della natura stessa del suo lavoro filosofico…

 

« Le critiche me le aspettavo sin dagli inizi, sì. Ciò che però oggi mi pone problema non è il fatto di essere criticato per quello che dico, ma il fatto che il dibattito è talmente infuocato che alcuni non sentono più quello che dico e in certi casi trasformano addirittura i miei propositi. Quando mi si fanno dire cose che non ho mai detto, allora si entra nel campo della manipolazione ».

 

 

Per esempio ?

 

« Per esempio, riferendosi alla mia critica allo stato di Israele, qualcuno ha sostenuto che io sono antisemita. È un fatto grave non solo per me, ma per lo Stato d’Israele stesso. Non si possono trasformare così le cose. Molti miei amici e alcune associazioni ebraiche hanno preso le mie difese negli Stati Uniti. Ho tantissimi amici ebrei. Non è ammissibile affermare che avrei sostenuto in un modo o in un altro posizioni fasciste, o che non sarei stato chiaro sulla questione del terrorismo. Lo sono stato e lo sono stato in modo categorico ».

 

 

Un altro esempio ?

 

« Nei giorni scorsi su un quotidiano italiano è stato scritto che io avrei annunciato alla televisione egiziana che bisognava distruggere Israele. Ma io non ho mai parlato alla televisione egiziana. In Egitto sono persona non grata. E non ho mai sostenuto simili propositi. Trovo già grave quando mi si dice che non si vuole parlare con me. Se poi non si vuole parlare con me per delle affermazioni che non ho mai fatto, la cosa mi sembra inammissibile ».

 

 

Secondo alcuni osservatori lei esprime il tentativo di conciliare due diverse fedeltà : quella all’Occidente e quella all’Islam. È d’accordo ?

 

« Completamente. Sono fra quelli che dicono che si può essere musulmani e occidentali senza essere meno musulmani per essere più occidentali e meno occidentali per essere più musulmani. Le due cose sono del tutto compatibili e milioni di musulmane e di musulmani lo dimostrano tutti i giorni ».

 

 

Ma è sempre possibile conciliare la fedeltà all’ortodossia religiosa e la lealtà politico-istituzionale all’Europa, all’Occidente, alla democrazia ?

 

« Non solo è possibile. Direi anzi che si tratta di una prescrizione della coscienza e della religione. Quando si è cittadini di un Paese, la lealtà al Paese, in materia politica, legale e statale, non deve mai essere rimessa in causa. Spesso mi chiedono se sono prima musulmano o prima svizzero. Ma la vera domanda è un’altra : a chi va la vostra lealtà ».

 

 

A chi, appunto ?

 

« Come cittadino sono svizzero e la mia lealtà va completamente alla Svizzera e non c’è nulla nei miei riferimenti musulmani che potrebbe giustificare il fatto di andare contro alla mia appartenenza alla Svizzera. Né sul piano legale, né su quello patriottico. L’idea stessa di amare il proprio Paese, di avere un centro di appartenenza e di amarlo, non è solo un rapporto strutturale o un contratto e non è in nessun modo in opposizione all’Islam. E poi, sul piano filosofico, ognuno ha le sue convinzioni e le sue credenze senza che questo contrasti la lealtà al proprio Paese. Le sole situazioni-limite sono quelle che ci forzerebbero a giustificare qualcosa di ingiusto. La mia posizione su questo è chiara : ognuno di noi ha una lealtà critica. Il buon cittadino, svizzero o italiano o francese, non è colui che sostiene ciecamente il suo Paese, ma colui che quando il suo governo sbaglia esprime il proprio disaccordo. Questa è la vera democrazia. Così come il buon musulmano non è colui che sostiene i musulmani qualsiasi cosa facciano ».

 

 

E lei quando ha criticato i musulmani ?

 

« Non ho mai esitato a dire a Bin Laden che rifiutavo ciò che faceva. Nel 1995, quando ci sono state le stragi in Egitto contro i turisti svizzeri, ho scritto sulla ‘Tribune de Genève’ una lettera di uno svizzero musulmano ai suoi concittadini condannando ciò che era accaduto. Mi sono espresso da svizzero che parlava ai suoi concittadini contro l’agire assolutamente inaccettabile di altri musulmani. Ecco in che cosa consiste la lealtà critica ».

 

 

Facciamo degli esempi. Non pensa che in Europa le donne musulmane debbano essere libere di mettere o di non mettere il velo se lo desiderano ?

 

« Mi esprimo su questa faccenda da ben 22 libri. E sono sorpreso che non si sia ancora capito quello che ho scritto in proposito. Dopo la polemica a Mantova con Christopher Hitchens i giornali italiani hanno trasformato le mie parole. Lui parlava del velo integrale ».

 

 

Ci ricorda, allora, la sua posizione in merito ?

 

« La mia posizione sul velo che copre i capelli è questa : non si può imporre ad una donna di metterselo, ma non si può neppure imporle di toglierlo. Ho preso posizione contro l’Iran e contro l’Arabia Saudita quando hanno imposto alle donne di indossarlo. In Occidente la mia posizione è la stessa. Se una donna vuole portare il foulard occorre che questa sia una scelta libera. Né suo padre, né la sua comunità, né i suoi fratelli possono deciderlo al posto suo. Se non lo vuole portare non lo deve portare. Ma al momento in cui decide di farlo la società deve poterlo accettare. Mi sembra l’unico atteggiamento giusto ».

 

 

E per quanto riguarda il velo integrale ?

 

« Per quello che riguarda il velo che copre la faccia, la mia posizione è che non si tratta di una prescrizione islamica. Io educherei i musulmani a non andare in quella direzione. Quando il ministro della giustizia inglese Jack Straw, in Inghilterra, ha posto il problema io ho detto che la sua domanda era giusta, ma posta dalla persona sbagliata. (Nell’ottobre dell’anno scorso Straw disse che il velo poteva essere “una dimostrazione palese di divisioni”, in un Paese dove si stanno formando “comunità parallele”, n.d.r.). Ciò che diceva poteva infatti essere usato politicamente. Ma noi, in quanto musulmani, dobbiamo avere questo rapporto critico. Ne parlo da sempre. Su questo punto mi batto per la libertà delle donne ».

 

 

Come vede la possibilità che, nell’ambito della scuola pubblica, i giovani musulmani europei frequentino un corso di cultura religiosa, invece di un’ora separata di religione musulmana ?

 

« Non ho mai sostenuto che non si devono frequentare i corsi di cultura religiosa nella scuola pubblica. Bisogna frequentare tutti i corsi, senza eccezione. La mia idea è che nella scuola pubblica bisognerebbe impartire a tutti un corso comune di conoscenze generali sulle religioni. Il catechismo non va fatto a scuola. La trasmissione della fede non è oggetto scolastico. Quella spetta alle chiese o alle moschee, ma fuori dalla scuola pubblica. La scuola ha la responsabilità di trasmettere la conoscenza, di far conoscere il fatto religioso perché viviamo accanto a persone che provengono da altre religioni. È importante avere degli elementi fattuali, scientifici e storici sulle religioni ».

 

 

In numerosi suoi scritti, rivolgendosi ai giovani musulmani europei, li invita a sentirsi a casa loro in Occidente e non in esilio. Qualcuno pensa che si tratti di un atteggiamento strumentale. Come se più che credere nella democrazia, lei la utilizzasse per consentire all’Islam di affermarsi nell’Occidente.

 

« Ho appena letto una tesi simile su ‘la Stampa’ di Torino e sono rimproveri che mi sono stati mossi anche dalla Francia. Atteggiamento strumentale il mio ? Al contrario. Io voglio la democratizzazione delle società musulmane. Mi spingo molto lontano sui rapporti tra Islam e principi laici. Bisogna promuovere dappertutto lo stato di diritto, la cittadinanza egualitaria, i mandati per i magistrati, la separazione dei poteri, il suffragio universale. Tutto questo fa parte delle mie battaglie. Non a caso mi è stato proibito di entrare in certi Paesi musulmani, come l’Arabia Saudita, la Siria o l’Egitto, contro i quali ho mosso una critica fondamentale concernente la loro scarsa democrazia. Sono quindi un profondo difensore della democratizzazione. Quando dico ai giovani musulmani ‘dovete sentirvi a casa vostra’, quelli che mi ascoltano hanno l’impressione che io parli da fuori, che io non sia un cittadino come loro. Ma io sono fra quanti rifiutano il termine ‘diaspora’. Rifiuto anche la nozione di ‘cittadinanza minoritaria’ : non esiste nel nostro diritto. Ma ho l’impressione che alcuni dei miei concittadini mi mettano nella condizione dell’’insider-outsider’ : uno che fa parte della comunità, ma è concepito come qualcuno di esterno ad essa ». 

 

 

Come spiega che gli attentati di Londra siano stati realizzati da musulmani di seconda generazione, quelli cioè più integrati nel tessuto sociale europeo ?

 

« Ho fatto parte della commissione del governo britannico che ha lavorato su questo problema. Ci si accorge, studiando il profilo di questi giovani, che non c’è relazione tra radicalizzazione e integrazione. Questi giovani non sono marginalizzati, sono assai bene educati, alcuni hanno persino conseguito dei dottorati. Sono occidentalizzati nel senso che alcuni andavano nei pub e nei bar poco prima di essere implicati in questi attentati. Non si incontravano in moschea, ma nei centri fitness ».

 

 

E quindi ?

 

« E quindi il problema non è l’integrazione. Siamo molto distanti dal caso dei giovani delle periferie francesi. Il problema è quello che chiamiamo il ‘senso di appartenenza’. Ciò che manca a questi giovani è la comprensione di trovarsi a casa loro. Hanno insomma una visione binaria : ci siamo ‘noi’ e ci siete ‘voi’. ‘Noi’ siamo musulmani e ‘voi’, britannici e occidentali non musulmani, uccidete i nostri laggiù. Per questa ragione noi uccideremo voi, qui. C’è un vero problema di comprensione che ha una doppia natura : una politica (siccome siamo oppressi possiamo uccidere – e per farlo strumentalizzano politicamente i riferimenti musulmani) e una religiosa (ed è l’idea che l’Islam sia un universo chiuso). C’è un enorme lavoro da fare su questa comprensione politica e religiosa. E va fatto per poter aiutare le ragazze e i ragazzi che vivono in quella che definisco la ‘zona grigia’ : non hanno cioè il profilo degli attentatori, ma potrebbero essere attirati dalla radicalità perché non riescono ad avere un’integrazione sufficiente nella società. A questa zona grigia dobbiamo fare un discorso assai chiaro sulla cittadinanza, sui principi dell’Islam e anche sui principi politici. Bisogna poter dire loro che non si aiuta l’islam nel mondo, in Iraq o in Palestina, uccidendo delle persone a Londra, ma educando, votando, diventando membri attivi della società civile nella quale vivono ».

 

 

Che cosa può imparare l’Occidente dall’Islam ? E l’Islam dall’Occidente ?

 

« Non mi ritrovo in questo tipo di discorso. Credo che ognuno abbia qualcosa da imparare dall’altro. Sono nato in Occidente e ho imparato tantissimo dalla cultura occidentale. Penso che la presenza musulmana possa aiutare l’Occidente a riconciliarsi col pluralismo culturale. Si è abituati al pluralismo politico. Si sa come affrontarlo. Ma vero il pluralismo culturale non si realizza quando da una parte ci sono i colonizzatori e dall’altra i colonizzati. Il vero pluralismo culturale è stare in Europa e vivere con persone di differenti culture sotto un regime egualitario. Poi c’è la nozione di spiritualità. Pensiamo al mese di Ramadan. Oggi, in alcune città, tra il 60 e il 70% dei musulmani stanno digiunando. Un dato che può suscitare domande all’interno della società dei consumi. Ma tutto questo non vuol dire che io neghi la presenza di valori analoghi nell’Occidente, come ho letto su un importante quotidiano italiano. Non ho mai detto che l’Occidente è decadente ».

 

 

In diversi paesi europei si guarda con preoccupazione alle moschee. Si teme che vi si predichino messaggi d’odio contro l’Occidente. E qualche volta è successo. Non crede che per scongiurare questi timori sia necessario che gli imam in Europa conoscano la lingua, le istituzioni e la cultura dei Paesi nei quali vivono ?

 

« Sì. La mia posizione è che stiamo vivendo un periodo di transizione. La presenza musulmana è molto recente. Ci sono ancora molte persone che vengono dai paesi a maggioranza musulmana. Ma c’è un solo avvenire per i musulmani europei e occidentali : delle istituzioni che formino gli imam nel paese in cui vivono. Non solo per la conoscenza della lingua, ma anche per la conoscenza della psicologia collettiva, della società. L’avvenire dell’Islam è nella formazione degli imam e delle autorità religiose nei paesi della presenza musulmana in Europa ».

 

 

Source : Corriere del Ticino

 

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