Chi ha paura di Tariq Ramadan?

L’Europa di fronte al riformismo musulmano, Marsilio, Venezia 2007, p. 196, euro 10.

 

di Nina zu Fürstenberg

 

 

Su di lui sono stati scritti innumerevoli articoli e parecchi libri. Gli è stato impedito di insegnare alla Notre Dame University, in quanto persona ‘non gradita’ al governo americano, ma Blair non ha esitato ad arruolarlo nella speciale commissione che è stata formata dopo gli attentati di Londra per far fronte alla sfida dell’integrazione islamica in Gran Bretagna. I giovani musulmani europei corrono in massa ad ascoltare le sue conferenze e le cassette che ne riportano lezioni e meditazioni si diffondono a macchia d’olio, ma molti lo additano come campione della dissimulazione, accusandolo di utilizzare un linguaggio ambiguo e di non essere altro che la versione in elegante dello stesso radicalismo religioso che porta altri alla lotta armata e al terrorismo. Il fatto che sia nipote del mitico fondatore egiziano dei Fratelli Musulmani non fa che aumentarne il prestigio agli occhi dei primi e irrobustire i sospetti dei secondi. Una recente polemica al calor bianco con alcuni intellettuali francesi di origine ebraica, da lui accusati di ‘comunitarismo’ in quanto pregiudizialmente favorevoli ad Israele e scarsamente critici verso la sua politica nei confronti dei palestinesi ha contribuito a rinfocolare le polemiche fino al parossismo, ben oltre i confini di Francia, tanto che più o meno ignari lettori hanno incontrato il suo nome in serie di articoli e persino inserti ad hoc apparsi anche su molte testate italiane. Queste ed altre vicende sono minuziosamente ricostruite dall’autrice in un saggio che opportunamente parte dall’interrogativo di fondo: cosa rappresenta Tariq Ramadan nel panorama del pensiero islamico contemporaneo? Le sue posizioni possono in qualche modo contribuire alla maturazione di una modalità di essere musulmani in Occidente utile alla convivenza e all’integrazione? Rispondere semplicemente con un sì o con un no sarebbe come decidere se inserire il suo nome nella lista dei buoni o dei cattivi. Operazione forse mediaticamente efficace, ma terribilmente inadeguata. Il libro ha il non piccolo merito di fornire elementi di riflessione e di valutazione, lontano dall’approccio partigiano tanto di chi ne vorrebbe fare un santino quanto di chi lo dipingere come un subdolo millantatore. E lo fa, finalmente, citando ampiamente l’interessato che esprime spesso valutazioni tutt’altro che peregrine: "Non si può immaginare un qualche futuro per i musulmani in Europa se essi si rifiutano di avere rapporti con l’ambiente circostante e se non sviluppano una dialettica grazie alla quale potranno essere, dare e ricevere". Il suo appello del 2005 per una moratoria delle punizioni fisiche e della pena di morte (pur previste dal Corano e dalla legge islamica) gli ha fatto guadagnare l’accusa di apostasia da parte delle frange musulmane più estreme, mentre in Occidente è stato valutato insufficiente: avrebbe dovuto dire che si tratta di norme assurde, da abolire subito e totalmente. Chi cerca di fare da ponte fra due mondi finisce spesso per esser considerato troppo audace da un lato e non abbastanza dall’altro. Ma se eccedesse in una delle due direzioni perderebbe fatalmente ogni contatto con l’altra sponda. I sostenitori della perversa logica del "tutto e subito", da una come dall’altra parte, non potranno mai apprezzare lo sforzo di Tariq Ramadan. Tanto peggio per loro.  

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